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La rivoluzione messicana
La rivoluzione messicana Il vecchio regime oligarchico di Porfirio Diaz (1877-1880, 1884-1911), all'insegna del motto "progresso nell'ordine", aveva in realtà arricchito solo i gruppi ristrettissimi che controllavano il Messico, imposto l'ordine con la forza e impoverito i contadini. La ribellione serpeggiava nelle campagne: in quelle latifondiste del sud, dove le comunità indie avevano ancora un forte peso, e in quelle del nord, dove non mancava una piccola proprietà. La scintilla della rivoluzione venne dall'appello alla lotta contro Diaz lanciato dal liberale Francisco Madero. Diaz provò a schiacciare l'opposizione sociale dei contadini, ora capeggiata al sud dal rivoluzionario Emiliano Zapata e al nord da Francisco Pancho Villa, ma crollò e abbandonò il paese. Madero fu eletto presidente della repubblica, carica che tenne fra mille difficoltà e incertezze (1912-1913), finché fu rovesciato da un suo generale, Victoriano Huerta. Ma anche la dittatura di Huerta fu breve (1913-1914). Mentre Zapata e Villa controllavano le campagne, il latifondista Alvaro Obregon e il senatore Venustiano Carranza presero in mano le coste e la capitale: Huerta fu cacciato e Carranza divenne il presidente (1914) con l'obiettivo di annientare Zapata e Villa. Questi concentrarono le rispettive forze e occuparono Città del Messico (1914) riuscendo a cacciare Carranza ma non a impedire che il potere passasse a Obregon (1920-1924). Intanto Zapata era stato assassinato (1919) e Villa finito in un'imboscata (1923), senza che i contadini avessero raggiunti gli obiettivi di riforma agraria per i quali avevano combattuto. Con la presidenza Obregon, quindi, la rivoluzione era ormai sedata: ma fu con i suoi successori Plutarco Calles (1924-1928) e soprattutto Lazaro Cardenas (1934-1940) che il sistema politico messicano raggiunse una forma costituzionale e una definizione liberale, laica e populista che ancora permane.
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